Requiem

Anno Composizione: 2000 - 03
Organico: coro, coro di bambini (o 2 voci femminili), organo e archi
Edizione: Casa Musicale Sonzogno


  • Kyrie
  • Dies irae
  • Sanctus



  • Molti autori si sono dedicati assiduamente alla musica sacra. Alcuni in modo pressoché esclusivo, come Perosi. Più spesso come frequentazione ricorrente nell’ambito della propria produzione, come Bruckner, o Messiaen. Per ognuno di loro non è inappropriata la definizione di “compositori di musica sacra”. Molti compositori hanno scritto lavori numerosi e significativi di musica sacra, da Mozart a Stravinskij, ma difficilmente potrebbe valere per essi la stessa definizione. Non so se potrei definirmi “autore di musica sacra”. A tutt’oggi, 2 febbraio 2005, ho scritto molti lavori appartenenti a questo genere: due Messe, due Magnificat, un De Profundis, un Te Deum, un Veni Creator, un’Ave Maris Stella, un Oratorio oltre ad un’Opera lirica di argomento sacro, il Pater noster e il Victimae paschali per la Messa di Resurrezione, scritta in collaborazione con altri sette compositori in occasione del Giubileo. Talvolta si è trattato di lavori composti su commissione; più spesso di una autonoma decisione, di una libera scelta. Ho sempre avuto in mente di scrivere un Requiem. Per la verità, quando ero ancora studente, scritti un Requiem aeternam (cioè il solo Introitus) per coro e organo; e prima ancora, non ricordo se a 16 o 17 anni, un analogo brano sul testo italiano. Ma un Requiem per intero è tutta un’altra faccenda e non è cosa che si possa improvvisare. Così ho continuato a pensarci per anni, rimandando continuamente per la complessità del lavoro. Fra tutti i testi che la liturgia ci mette a disposizione quello della “Messa per i defunti” è certamente quello che più ci colpisce. E’ quello che ci attrae per l’argomento al quale nessuno sfugge, che ci coinvolge direttamente, in prima persona. Il Requiem ha una struttura articolata, che affronta il tema della morte sotto aspetti diversi: quello del riposo, quello del perdono, quello della speranza. Ma il tema dominante, quello che riappare continuamente qua e là, nelle trame del testo, e che diviene centrale nella Sequenza che ha reso celebri i Requiem più celebri, è quello del terrore: terrore del Giudizio finale, terrore del castigo. “Quello sarà il giorno dell’ira, quando il mondo sarà ridotto in cenere”: le parole che aprono il Dies irae sono quanto di più terrificante si possa trovare fra i testi sacri. Non a caso la Chiesa dell’ultimo Concilio lo ha tolto dalla liturgia. In fondo tutto il Requiem oscilla continuamente fra questi due temi dominanti: della paura e del perdono. Il privilegiare il secondo rispetto al primo è stata una scelta che prima della riforma conciliare era stata già anticipata da alcuni compositori. Come i francesi Fauré e Duruflé. Un Requiem senza il Dies irae acquista una dimensione più leggera, dove domina la speranza. Come anche nel caso del Requiem di John Rutter, per citare un esempio dei nostri giorni. E’ difficile immaginare le motivazioni più profonde che abbiano spinto questi autori a eliminare il Dies irae. E’ possibile che sia stata una scelta poetica, appunto per privilegiare il senso di fiducia, di attesa della risurrezione. Ma non mi sento di escludere una scelta tattica, per evitare un confronto difficilmente sostenibile con modelli inarrivabili, come quelli di Mozart o di Verdi. Il problema del Dies irae è stato centrale nel ritardare la decisione di scrivere questo Requiem. Ho impiegato diversi anni a completare il lavoro nella sua interezza. La redazione è stata intervallata da lunghe pause, tuttavia non ho avuto difficoltà o ripensamenti nell’impostare i diversi movimenti. Tranne che per il Dies irae. Devo dire che la scelta di inserirlo non è stata mai messa in discussione, anzi direi che la sfida, se di sfida si trattava, era proprio quella di scrivere un Dies irae. Nonostante Verdi, nonostante Mozart. Cito questi due lavori perché sono quelli che più mi hanno ossessionato in questi anni. Verdi in particolare: l’attacco della prima strofa è quanto di più impressionante sia mai stato scritto su questo testo. Credo che il senso dello scatenamento dell’ira divina e del terrore di un’umanità che tenta caoticamente e inutilmente di fuggire siano stati scolpiti in modo definitivo da Verdi. Tentare di ripercorre la stessa strada mi sembrava un’impresa tanto proibitiva quanto vana. Ho a lungo pensato di dare al Dies irae un taglio diverso. Avevo in mente una soluzione asciutta, fatta di pochissimi elementi che evocassero un senso di vuoto assoluto: quale senso maggiore di disperazione ci può essere della solitudine di fronte al nulla? Quindi la morte come annientamento totale, la fine definitiva di tutto. Devo confessare che dopo innumerevoli tentativi non sono riuscito a trovare una soluzione musicale convincente per dare questo senso di terrore del nulla assoluto. Come si può rendere musicalmente questo “affetto”? Temo proprio che fra tutti i sentimenti che la musica può far sgorgare quello del terrore vissuto in prima persona sia proprio fuori dalle possibilità di questo linguaggio. C’è materia di analisi per i semiologi della musica. Perché un conto è descrivere il terrore, come fa Verdi, un conto è suscitarlo. Poco alla volta mi sono convinto di tornare ad una impostazione tradizionale, quindi descrittiva e non evocativa. Ciò nonostante la stesura del Dies irae è stata ugualmente difficoltosa e frammentaria, anche per la necessità di sfuggire all’ossessivo ritmo binario imposto dagli implacabili ottonari del lunghissimo testo di Tommaso da Celano. Dando una sommaria indicazione su come il brano si articola posso indicare una prima parte (fino al verso “ne perenni cremer igne”) dove si alternano due elementi: l’idea di caos e quella dell’inesorabilità (la costante pulsazione ritmica); segue una parte in cui la musica si placa (tutta la terzina “Inter oves... ...in parte dextra”). Segue una ritorno al caos dell’inizio e una lunga Coda conclusiva sul testo del “Lacrymosa” condotta come una trenodia su un basso ostinato mi-si-mi-la. Tutto il Requiem, nel suo complesso, è strutturato in sette numeri che seguono l’ordine canonico: Requiem aeternam (Introitus), Kyrie, Dies irae (Sequentia), Domine Jesu Christe - Hostias (Offertorium), Sanctus, Agnus Dei, Lux aeterna - In paradisum. Il Requiem aeternam è aperto da alcuni clusters diatonici degli archi su cui il coro interviene con una analoga tecnica, suddividendosi fino ad otto voci. Queste zone di armonie stratificate sono intervallate da interventi a quattro voci “a cappella” in stile modale e, in conclusione, da un breve intervento del “solo” sulle parole “et lux perpetua luceat eis”. Il Requiem aeternam di Introitus è dedicato “al sorriso di Emilio, che splende in eterno fra i bassi del coro celeste”. Il Kyrie, a quattro voci a cappella con organo ad libitum, è condotto sul cantus firmus dell’originale gregoriano alternato fra soprano e tenore. E’ dedicato “a Gianna, che ora può cantare festosa fino agli acuti più inarrivabili”. Il Dies irae, già sufficientemente illustrato, è dedicato “a D’Oscar, che, ubi maior, ora dà una mano al Perosi”. L’Offertorium non segue lo schema suggerito dal testo (a-b-c-b) con il “quam olim Abrahae promisisti” alla fine sia del Domine Jesu Christe che dell’Hostias. Viceversa è diviso in due parti distinte: nella prima viene realizzato un contrappunto stretto su una griglia di triadi maggiori concatenate per note comuni; nella seconda un’analoga progressione di triadi (maggiore, maggiore, minore, maggiore, minore, minore, maggiore, minore e di seguito ripetendo l’identica sequenza) segue un percorso armonico che dai registri gravi delle voci maschili procede verso l’alto fino al registro acuto dei soprani. Termina con il “quam olim” a due voci sole divise. L’Offertorium è dedicato “a Maria Francesca, chiamata troppo presto a cantare nel coro degli Angeli”. Ho sempre provato un senso di disagio riguardo al Sanctus inserito nel Requiem. Quest’inno di lode al “Deus Sabaoth” mi è sempre sembrato un po’ fuori contesto in una silloge di testi di supplica e di perdono. Per questo ho creduto di mantenermi su un piano di austerità vocale dove frequente è il ricorso ad andamenti monodici. Il brano si apre con una lunga introduzione dove gli archi realizzano una concatenazione ascendente di triadi maggiore-minore alternate e collegate in modo simile al brano precedente. Il Benedictus, secondo prassi, è affidato al solista, mentre il coro riprende sull’Hosanna finale, anche qui con finale in diminuendo e in ascesa verso l’acuto. Il Sanctus è dedicato “a Tom, che forse, approvando col capo, non mancherà di dirigere con la sua nuova orchestra”. L’Agnus Dei riprende la sonorità del Requiem aeternam, alternando la musica di quel brano a frammenti dell’Agnus gregoriano. E’ dedicato “a Fabio, che possa «svisare» per sempre coll’hammond, su un’inestinguibile blues”. Il settimo brano realizza la fusione di due testi distinti: Lux aeterna e In paradisum. La sua gestazione è stata lunga. Ho sempre ammirato il Lux aeterna di Ligeti: ho ammirato da sempre la purezza delle sue linee vocali, pari alla sua quasi ineseguibilità, riservata solo a poche, abilissime formazioni corali. Ho creduto di rifarmi allo stesso concetto di Ligeti, ma con materiali più “gestibili”, utilizzando triadi corali statiche, lentamente cangianti all’inizio del Lux aeterna. Sulla fissità di questo piano timbrico poco alla volta viene elaborato il sostegno degli archi. Un procedimento per accumulo di materiali che sfocia in una litania processionale a cinque voci costruita su una serie di canoni percorrenti la scala discendente di re minore che avrebbe dovuto chiudere il brano in lenta scomparsa. La notizia della morte improvvisa di un carissimo amico mi ha indotto a riprendere il brano aggiungendo un brevissimo intervento del solista che ripetendo tre volte il “quia pius es” prepara l’ultimo “Dona eis requiem” del coro che si va a spegnere su una lunga Coda conclusiva degli archi gravi. Il Requiem era terminato. Ma a distanza di tempo ho creduto di dover modificare ancora il finale. Confesso di avere forzato la mia volontà nell’aggiungere una conclusione salvifica, ma ho anche pensato che in condizioni di maggiore serenità probabilmente quella sarebbe stata la strada che avrei scelto. Ho così collegato alla Coda degli archi del Lux aeterna l’inizio del canto In paradisum, condotto esclusivamente sulla melodia gregoriana affidata ai due soli e, in progressivo crescendo, al coro diviso a cinque voci. Il brano termina con il coro che sfuma su un “solo” del contrabbasso che “canta” in acuto su un accordo-cluster diatonico (sol-la si-re-fa#) degli archi. Il Lux aeterna non poteva che essere dedicato “a Sandrino, tornato la più pura e innocente voce bianca”.


    Carlo Pedini


    Requiem aeternam (a Emilio Cappannini in memoriam)
    Kyrie (a Gianna Timitilli in memoriam)
    Dies Irae (a don Osca Carbonari in memoriam)
    Offertorium (a Maria Francesca Bosi in memoriam)
    Sanctus (a Thomas Briccetti in memoriam)
    Agnus Dei (a Fabio Lucaccioni in memoriam)
    Lux aeterna-In paradisum (a Sandro Grancio in memoriam).

    Da "Requiem": 1.Requiem aeternam

    Da "Requiem": 2.Kyrie

    Da "Requiem": 3.Dies irae

    Da "Requiem": 4.Offertorium

    Da "Requiem": 5.Sanctus

    Da "Requiem": 6.Agnus Dei

    Da "Requiem": 7.Lux aeterna